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Un Biologo Nutrizionista deve affrontare ogni giorno una combinazione di eventi e di sfide tecniche e relazionali non indifferenti. Da un lato deve mantenersi costantemente aggiornato sulle ultime evidenze scientifiche e gestire casi clinici talvolta complesso. Dall’altro lato deve riuscire a costruire un rapporto di fiducia con i propri pazienti e movitarli al cambiamento oltre che a far fronte al loro stress emotivo e allo stress emotivo che deriva dalla professione.
In questo articolo, leggermente diverso dai soliti articoli che scrivo su questo blog, parlareremo delle principali difficoltà del biologo nutrizionista fornendo esempi concreti e riferimenti affidabili a supporto di consigli utili ad affrontarle. Vediamo singolarmente le sfide che un Biologo Nutrizionista è tenuto ad affrontare per svolgere correttamente la sua professione.
Necessità di Aggiornamento e Formazione Continua
La scienza della nutrizione è in continua evoluzione, con nuove ricerche e linee guida che emergono regolarmente. Per un biologo nutrizionista, rimanere al passo con queste novità è assolutamente necessario ma sicuramente può risultare impegnativo. Secondo un sondaggio condotto tra dietisti di nutrizione clinica, la rapida evoluzione della scienza della nutrizione contribuisce alla difficoltà di “tenersi aggiornati sulle raccomandazioni evidence-based”. Aggiornarsi e formarsi continuamente è veramente importante affinché il professionista mantenga la propria competenza e credibilità, ma richiede tempo ed energie oltre che un certo investimento economico. In Italia, ad esempio, i biologi nutrizionisti iscritti all’albo devono acquisire 150 crediti ECM ogni triennio come formazione continua obbligatoria. Non si tratta però solo di rispettare un requisito formale: l’aggiornamento costante è essenziale per elaborare piani alimentari efficaci basati sulle più recenti evidenze scientifiche e linee guida nutrizionali in continua evoluzione.
Un biologo nutrizionista deve anche saper tradurre la teoria in pratica clinica e questa è una delle sfide più impattanti soprattutto all’inizio della professione, quando si passa dai banchi universitari alla vita professionale. La professione richiede di combinare la conoscenza scientifica aggiornata con l’esperienza professionale e con le esigenze complesse dei pazienti, in un approccio realmente basato sull’evidenza scientifica e altamente personalizzato. Ovviamente questo si traduce nel dover sviluppare una grande capacità di valutare criticamente studi e linee guida, e applicarli caso per caso.
Non esiste un paziente uguale ad un altro e ogni caso è a se. Non esiste neanche la possibilità di usare modelli di diete prestabiliti da fornire poi a più pazienti: ogni dieta è unica in quanto ogni paziente è unico.
A proposito dell’aggiornamento per fornire un servizio sanitario di eccellenza al paziente per esempio, nuovi studi sul microbiota intestinale o su approcci dietetici innovativi (come diete chetogeniche o digiuno intermittente) rendono necessario un aggiornamento continuo per fornire al paziente strategie terapeutiche innovative e aggiornate. Il nutrizionista deve dunque dedicare parte del proprio tempo settimanale alla lettura di riviste scientifiche, partecipazione a corsi e convegni, e confronto con colleghi, per rimanere sempre aggiornato. Questa sfida intellettuale, se da un lato arricchisce la professionalità, dall’altro può generare pressione: c’è sempre qualcosa di nuovo da imparare, e trascurare l’aggiornamento può significare restare indietro rispetto allo standard di cura atteso. Anche chi decide di dedicarsi ad una specifica nicchia di pazienti è comunque tenuto ad aggiornarsi su tutto il resto perchè la nutrizione è un ambito globale e globalizzante in cui tutto è legato.
Complessità nella redazione di piani nutrizionali personalizzati

Ogni paziente è un caso a sé dicevamo, con esigenze nutrizionali, preferenze e abitudini uniche ed esclusive. Elaborare un piano alimentare personalizzato e al tempo stesso sostenibile rappresenta una sfida molto complessa per il nutrizionista. Non a caso, molti professionisti riferiscono che creare piani dietetici su misura può essere “un compito scoraggiante”, che alcuni tendono perfino a evitare cercando di adattare pochi piani a più pazienti. Sebbene in alcuni casi questo modus operandi possa avere una logica è evidente che non rappresenta un buon modo di seguire e trattare il paziente.
Se il piano non è ben calibrato sullo stile di vita e i gusti del paziente, c’è il rischio concreto che quest’ultimo non lo segua, vanificando il lavoro svolto e causando frustrazione sia al professionista che al paziente. Ma soprattutto (cosa ben più rilevante): se il piano non è basato sulla storia clinica del paziente, sulle sue condizioni cliniche attuali e sugli obiettivi clinici che il paziente dovrebbe raggiungere si rischia di creare danni al paziente, cosa che ovviamente va accuratamente evitata.
Creare un piano alimentare efficace richiede di bilanciare attentamente numerosi fattori tecnici. Il nutrizionista deve considerare i fabbisogni energetici e nutrizionali individuali (calcolati in base a età, sesso, peso, stato di salute, livello di attività fisica), eventuali patologie o condizioni (ad esempio diabete, ipertensione, allergie o intolleranze), nonché le preferenze alimentari, abitudini di vita e cultura del paziente. Ad esempio, sviluppare una dieta per un paziente vegetariano e sportivo richiede accortezze diverse rispetto a un piano per un anziano con problemi metabolici. Praticamente occorre prevedere alternative e una certa flessibilità, così che il piano sia adattabile alla routine quotidiana di chi lo segue. La personalizzazione spinta è pertanto imprescindibile soprattutto oggi che l’estrema accessibilità dell’Intelligenza Artificiale rende facile l’uso di strumenti (vedi Chat GPT) che, da soli, riescono bene o male a impostare un piano nutrizionale generico a cui il paziente è portato a “credere” e che il paziente potrebbe, addirittura, autogenerarsi e adottare: questo è un tema molto delicato che magari affronteremo in un altro articolo. Tutto questo però rende il lavoro del nutrizionista simile a quello di un sarto: si tratta di cucire ogni volta un “abito alimentare” che va inevitabilmente cucito su misura. Questa complessità tecnica, se non gestita con metodo, può diventare fonte di stress professionale.
È molto utile in questi casi adottare strumenti e protocolli standardizzati per la valutazione nutrizionale e la pianificazione (come software dietetici, linee guida LARN, fogli excel personalizzati), così da rendere il processo più efficiente senza sacrificare l’individualizzazione.
Personalmente ho provato molti approcci per velocizzare la scrittura di un piano nutrizionale. Tra gli approcci provati mi sono trovato sicuramente bene con alcuni software che sicuramente aiutano a gestire la compilazione del piano con un ordine aiutandoti soprattutto a tenere sotto controllo (per quanto possibile) i valori nutrizionali in seguito anche a piccoli cambiamenti degli alimenti nel piano (cosa difficile a mano).
E’ importante però sapere che i software non scrivono diete pronte all’uso ma facilitano il processo di scrittura e rendono la dieta presentabile al paziente con un certo ordine e con una certa “usabilità” da parte del paziente stesso. Alcuni software hanno oggi anche delle APP integrate per smartphone che recapitano al paziente la sua dieta direttamente sul loro smartphone rendendo ancora più accessibile la consultazione.
Gestione delle Patologie Complesse e dei Casi Clinici Articolati

Una delle principali differenze tra l’ambiente accademico dell’università e la realtà lavorativa di un biologo nutrizionista è proprio la presa in carico dei numerosissimi e variegati casi clinici che si presentano all’attenzione del professionista. Sui libri, in genere, si studiano argomenti e casi clinici standard generalmente caratterizzati da una condizione clinica monotematica e chiara. La realtà è tutt’altra cosa e questo il biologo nutrizionista lo sperimenta sin dalla prima settimana di lavoro in uno studio.
Tutti i biologi nutrizionisti si trovano sin da subito a dover seguire pazienti con patologie complesse o multiple, dove l’alimentazione gioca un ruolo terapeutico fondamentale. Gestire questi casi rappresenta una sfida notevole: occorre integrare le raccomandazioni dietetiche per diverse condizioni, evitando conflitti con farmaci e altre condizioni in essere e dando priorità agli obiettivi di salute più urgenti. Si pensi ad esempio a un paziente affetto sia da diabete di tipo 2 che da insufficienza renale cronica: il nutrizionista deve conciliare le esigenze di un regime a basso indice glicemico con quelle di una dieta ipoproteica e povera di potassio/fosforo, trovando un equilibrio che tenga sotto controllo la glicemia senza sovraccaricare i reni. Questo è uno dei casi che io mi sono ritrovato ad affrontare dopo solo 5 giorni di lavoro in studio, caso che mi ha allarmato e spaventato non poco. La formulazione di un piano nutrizionale per un paziente di questo tipo mi ha messo a dura prova come persona, come professionista e ha messo in dubbio, da subito, le mie competenze teoriche. Ho dovuto quindi consultarmi con colleghi, studiare attentamente i protocolli dietetici consigliati dalle società di nefrologia e di diabetologia, ho addirittura preso contatti con la farmacia locale del luogo di residenza del paziente per accertarmi che questa vendesse specifici prodotti aproteici e per accertarmi della marca dei prodotti al fine di studiarne i dettagli nutrizionali.
Allo stesso modo, un paziente obeso con sindrome metabolica e ipertensione richiede un piano che favorisca la perdita di peso, controlli i carboidrati, sia povero di sodio e ricco di nutrienti cardioprotettivi – il tutto senza risultare troppo restrittivo o difficile da seguire. Queste situazioni mettono alla prova le competenze del nutrizionista, che spesso deve collaborare con altri professionisti sanitari (medici, psicologi, etc.) per una gestione integrata del paziente.
Alcune condizioni richiedono espressamente un approccio multidisciplinare. Ad esempio, i disturbi del comportamento alimentare (come anoressia e bulimia) sono patologie complesse in cui il biologo nutrizionista opera insieme a psicologi e medici specialisti. Personalmente ho deciso da subito di non trattare i DCA ma questa scelta per me ha avuto un “costo”. Un “costo” di immagine nei confronti dei poveri pazienti affetti da questo disturbo che trovano una specie di “rifiuto” non bello da osservare dal punto di vista del paziente. Ha avuto un “costo” anche in termini di affermazione del mio studio professionale di nutrizione che ovviamente risente di qualsiasi tipo di patologia non trattata. Affrontare un DCA però richiede competenze complesse che vanno sviluppate con percorsi di studio post-laurea (master, tirocini specifici in questo ambito) che io non ho fatto per scelta. Affrontare un DCA inoltre “richiede un approccio multidisciplinare che coinvolge vari professionisti della salute, tra cui psicologi, nutrizionisti e medici” interdisciplinarietà che, specie all’inizio della professione, non è molto facile costruire.
Personalmente sono per lavorare in “nicchie” specifiche di competenze: non tutti possono saper (o voler) fare tutto e quindi ricavarsi la propria nicchia può avere molti vantaggi ma, come sempre, anche degli svantaggi.
In questi casi complessi, il nutrizionista non si limita a fornire un piano alimentare per correggere le carenze e ripristinare uno stato nutrizionale sano, ma partecipa al percorso terapeutico globale, adattando la dieta ai progressi psicologici del paziente e supportandolo con educazione alimentare e ascolto empatico.
La gestione di pazienti oncologici è un altro esempio critico: il nutrizionista deve essere specificatamente formato su questo tema e un biologo nutrizionista “generalista” difficilmente potrà addentrarsi con scioltezza al trattamento nutrizionale di pazienti oncologici che magari stanno seguendo chemioterapia e o radioterapia. E’ necessario infatti tener conto degli effetti collaterali dei trattamenti (che possono alterare appetito e assorbimento) e modulare la dieta per prevenire la malnutrizione e sostenere le forze del malato ed è necessario tenere conto di molteplici altri aspetti critici nel trattamento nutrizionale di questi pazienti delicati. In sintesi, i casi clinici complessi richiedono al biologo nutrizionista elevate competenze cliniche, flessibilità e capacità di lavorare in team.
C’è da dire che ogni successo in questi frangenti (ad esempio un miglioramento dei valori ematici o dello stato di salute generale grazie alla dietoterapia) rappresenta una grande soddisfazione professionale, ma il percorso per arrivarci è spesso arduo e denso di responsabilità.
Costruire un rapporto di fiducia con il paziente

Le competenze tecniche, per quanto cruciali, da sole non bastano: il successo di un intervento nutrizionale dipende in larga misura dalla relazione di fiducia che il professionista sa instaurare con il paziente. Il biologo nutrizionista quasi sempre entra nell’intimità delle abitudini quotidiane del paziente, esplorando cosa mangia, come gestisce lo stress, quali difficoltà incontra nel cambiare stile di vita. Per ottenere informazioni accurate e poterle usare in modo costruttivo, è fondamentale che il paziente si senta ascoltato, compreso e non giudicato. “Empatia” è per me la parola chiave.
Solo in un clima di fiducia reciproca il paziente sarà disposto ad aprirsi completamente e a seguire con impegno i consigli ricevuti.
Così come riportato in questo studio la fiducia è considerata dagli stessi dietisti “il fattore più importante, ma anche tra i più difficili, nella costruzione della relazione col paziente”. Studi sul rapporto terapeutico in dietetica confermano che una solida alleanza terapeutica facilita la condivisione di informazioni da parte del paziente (cosa mai scontata) e migliora i risultati del trattamento.
Quando ho iniziato il mio lavoro di biologo nutrizionista una delle prime cose che mi ha colpito (e messo anche un pò in crisi) è il fatto che la maggior parte dei pazienti durante la visita si apre completamente con il biologo nutrizionista mettendo a nudo le proprie emozioni, condizione che spesso sfocia in manifestazioni esterne di sfogo come il pianto. Nel mio caso moltissimi pazienti si lasciavano andare a questo sentimento che io non riuscivo a connotare ne come un sentimento negativo ne come un sentimento positivo: prendevo atto che si trattava di una manifestazione della sensibilità umana del paziente in quel preciso momento in quel preciso setting all’interno dello studio. Questa particolarità mi ha più volte messo in crisi in quanto è una sfera relazionale molto più vicina alla psicologia che alla scienza della nutrizione. In quanto biologi nutrizionisti a mio avviso noi dobbiamo “accogliere” questi sentimenti ma non dobbiamo assolutamente addentrarci in considerazioni tecniche e cliniche sugli stessi, ne dobbiamo cercare di analizzarli se non limitatamente al loro effetto sulle abitudini alimentari. E’ compito di altre figure professionali infatti la presa in carico del paziente dal punto di vista psicologico, motivo per cui sempre più spesso biologi nutrizionisti e psicologi lavorano a stretto contatto, spesso nello stesso studio e, alcune volte, nello stesso momento.
Costruire un’alleanza emotiva con il paziente richiede al nutrizionista abilità comunicative e sensibilità: usare un linguaggio chiaro ma rispettoso, mostrare empatia verso le sfide che il paziente affronta, adattare il proprio stile comunicativo alla persona che si ha di fronte ed evitare rigorosamente il giudizio fine a se stesso. Ad esempio, con un paziente ansioso e insicuro potrà essere utile adottare un tono rassicurante, procedere per piccoli passi e premiare ogni progresso, mentre con un paziente molto informato e autonomo si potrà assumere un ruolo più da “coach”, fornendo dati scientifici e lasciando spazio all’auto-monitoraggio.
In tutti i casi, mantenere le promesse fatte, rispettare la riservatezza e mostrare coerenza tra quanto detto e quanto fatto (ad esempio dando il buon esempio in termini di stile di vita sano) contribuisce a consolidare la fiducia tra nutrizionista e paziente. Un rapporto ben costruito non solo facilita il percorso nutrizionale nel breve termine, ma getta le basi per un rapporto continuativo: molti pazienti tornano periodicamente dal proprio nutrizionista di fiducia per controlli e consigli, sapendo di poter contare su di lui/lei come riferimento autorevole e supportivo.
Gestione delle aspettative dei pazienti

Nell’era dei social media, molti pazienti arrivano dal nutrizionista con aspettative irrealistiche o credenze totalmente errate sull’alimentazione, influenzati da diete “miracolose” o atteggiamenti alimentari ai limiti del pericoloso.
Il biologo nutrizionista ha il compito di riallineare queste aspettative alla realtà, spiegando con chiarezza e tatto cosa significa perdere peso in modo sano e sostenibile (circa 0,5-1 kg a settimana). Studi dimostrano che quasi la metà dei pazienti obesi ha obiettivi troppo ambiziosi, il che può portare a frustrazione e abbandono del percorso (drop-out). È quindi fondamentale offrire educazione alimentare, smontare miti e valorizzare i piccoli miglioramenti progressivi, per costruire un percorso efficace e duraturo.
Motivare il paziente e favorire l’aderenza

Cambiare abitudini alimentari consolidate non è facile: anche con il miglior piano alimentare del mondo, se il paziente non riesce a seguirlo nel tempo, i risultati saranno scarsi. Per questo motivo, la mancanza di aderenza e il calo di motivazione dei pazienti costituiscono spesso una problematica non banale per i biologi nutrizionisti. Molti pazienti iniziano un percorso dietetico con entusiasmo, ma poi incontrano ostacoli pratici (impegni lavorativi, vita sociale, costi degli alimenti salutari) o psicologici (calo della determinazione, tentazioni, stress emotivo) che li portano a deragliare totalmente dal piano. Il nutrizionista deve quindi riuscire ad aiutare il paziente a mantenere il focus sugli obiettivi e a trovare strategie utili e concrete per superare le difficoltà.
Un problema frequente è infatti proprio il drop-out precoce dalle consulenze nutrizionali. Studi indicano che i percorsi nutrizionali hanno spesso tassi elevati di abbandono, il che influisce negativamente sugli esiti clinici. Ad esempio, un paziente che non vede risultati immediati sulla bilancia dopo le prime settimane è generalmente portato a scoraggiarsi e interrompere gli appuntamenti non presentandosi alle visite di controllo (spesso senza preavviso).
Il nutrizionista deve prevenire queste situazioni attraverso un supporto costante e proattivo. Alcune strategie utili includono: stabilire insieme al paziente traguardi a breve termine realistici (es. migliorare la digestione, perdere 2-3 kg in un mese, provare 2 ricette sane nuove a settimana) così da avere risultati tangibili in tempi brevi; utilizzare tecniche di colloquio motivazionale, ponendo domande aperte sul perché il paziente desidera cambiare e facendogli esprimere in prima persona i benefici che si attende di ottenere e rafforzando così la sua motivazione intrinseca; fornire strumenti di automonitoraggio (diari alimentari, app contacalorie, grafici di progresso) che rendano visibili i progressi e responsabilizzino il paziente; mantenere un contatto attivo tra un appuntamento e l’altro (ad esempio via email o messaggistica, ove appropriato) per incoraggiare e rispondere a dubbi.
È importante anche adattare il piano in corso d’opera secondo le necessità: se un paziente riferisce che una certa colazione non riesce a prepararla per mancanza di tempo, il biologo nutrizionista può proporre alternative più pratiche anziché insistere su uno schema ideale ma poco applicabile. Così il paziente si sentirà compreso nelle sue difficoltà e sarà più propenso a collaborare.
Concludendo…
La professione di biologo nutrizionista è affascinante e spesso anche molto gratificante, ma indubbiamente è una professione ricca di numerosissime sfide su molti fronti. Dalla necessità di rimanere sempre aggiornati scientificamente e di destreggiarsi tra piani alimentari complessi, alla capacità di instaurare relazioni di fiducia e di sostenere i pazienti nel lungo percorso del cambiamento, fino alla gestione del proprio bagaglio emotivo: questi professionisti devono sviluppare un ventaglio di competenze sia tecniche che emotive.
Investire nella formazione continua, dotarsi di strumenti e metodi per ottimizzare il lavoro, fare rete con altri professionisti, coltivare l’empatia ma anche l’auto-protezione emotiva, sono tutte azioni che permettono al nutrizionista di trasformare queste sfide in opportunità di crescita professionale. In definitiva, superando questi ostacoli quotidiani, il biologo nutrizionista può davvero fare la differenza nella salute e nel benessere dei propri pazienti, guidandoli con competenza e umanità verso uno stile di vita migliore.